IV

La poesia alfieriana

Se l’origine della sua poesia è da ricercarsi anzitutto, dietro la sua indicazione, nella vita di un sentimento poetico ancora inconscio («Ma non possedendo io allora nessuna lingua, e non mi sognando neppure di dovere né poter mai scrivere nessuna cosa né in prosa né in versi, io mi contentava di ruminar fra me stesso, e di piangere alle volte dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo di ridere: due cose che, se non sono poi seguitate da scritto nessuno, son tenute per mera pazzia, e lo sono; se partoriscono scritti, si chiamano Poesia, e lo sono»[1]), la sua poetica consiste appunto non in un giuoco di fantasia o in urgenza della memoria, ma nel bisogno di esprimere gli affetti che lo divoravano. E poiché questi non avevano un disegno preciso se non di liberazione dalla loro angoscia, il primo istinto della poetica alfieriana fu di stabilire un contrasto, di porre un ostacolo, di mitizzare quell’angoscia e la lotta per dare ai gridi della personalità un senso di lotta e di liberazione. Si può dire che è un primo moto lirico quello che l’Alfieri prova nella coscienza del suo mondo interiore da esprimere, ma che a quel movimento lirico occorre un ostacolo, un limite da superare, un deuteragonista anche di paglia purché gli permetta di presentarsi come in un’azione, in una lotta. L’Alfieri quando volle costruire il suo sentimento poetico aveva dinanzi una tradizione lirica che non poteva offrirgli molto piú dei modelli arcadici, mentre aveva dinanzi una tradizione tragica ricca e sostanziosa. La forma della tragedia, con le sue possibilità di urto e di grido, d’urgenza del gesto e dell’azione, doveva presentarglisi non solo come la piú cara al secolo (come adesso allo scrittore si presenta il romanzo), ma come la piú adatta al suo mondo di sentimenti in lotta, non di meditazione lirica né di effusione idillica. Non furono dei precisi modelli che lo poterono impressionare, piuttosto la struttura stessa della tragedia col suo precipitare verso una soluzione non di pacificazione, ma di rottura e di schianto. Era quasi il grafico ideale della sua passione, del suo amore per gli eccessi mescolato con il suo odio politico, che lo portava a quella specie di lotta combattuta sulla scena. La forma tragica gli era necessaria, e non vale dire che il suo non è tanto teatro quanto lirica: è verissimo, ma si tratta di una lirica sui generis, che si costruisce tragicamente e parla di una lotta combattuta nel mentre che si combatte. Inoltre cosa avrebbe detto quella lirica se fosse rimasta rinchiusa nel giro della lirica tradizionalmente intesa? Quello che ci dicono le Rime,tra le quali, pur belle, non ce n’è una che valga i momenti sublimi del Saul, del Filippo, della Mirra, dell’Agamennone.

Il loro valore è lirico, cosí intensamente poetico e personale, ma non possono vivere senza la struttura che le motiva. Non diremo che avvenga come per la Divina Commedia per cui anche le parti strutturali sono poesia, ma certo qui la loro funzionalità, meno esplicita apparentemente, è in realtà molto piú vera ed impoetica. Certo la parte intima dei momenti poetici può dirsi lirica (ma si è detto una volta per tutte che la lirica è ogni poesia in quanto tale, ma che storicamente parlare di lirica è indispensabile per quanto vogliamo rimetterci nella scelta degli autori), cioè motivata da un personalissimo bisogno di esprimere un sentimento proprio, una passione propria, ma già questo sentimento aveva anche un impeto, un impegno di lotta, di dialogo, ma pure senza risposta. Era cupamente solo, ma di fronte a un nemico.

Cosí la costruzione alfieriana fu tragica, e con l’impegno degli autodidatti e con la severità di chi entra in un mondo illustre le cui regole vanno accettate come quelle del mondo vile vanno rigettate, la tragedia fu presa nella forma piú regolare, come la lingua fu cercata nella sua purezza e rigidità grammaticale. Il romanticismo volle non tanto rendere omaggio al mito dell’antichità aurea quanto inserirsi in una disciplina perfetta che fosse il corpo organico, coerente di quei sentimenti nuovi e smisurati. Inoltre il suo mondo intimo era di eccezione, non narrava, non chiedeva: affermava e lottava alto e sicuro (donde il disprezzo per il dramma borghese al suo albore) e quindi tendeva ad una espressione pure illustre e senza compromessi: estremamente poetica, senza riferimenti ad una realtà quotidiana che non lo interessava.

E con la stessa sicurezza con cui tendeva ad assimilare la tradizione linguistica e letteraria toscana, per essere sicuro del piano su cui si moveva, rifiutava qualsiasi possibilità di imitazione, per non frammettere tra il suo sentimento e il mito prescelto nessuno spunto che potesse condurlo sulla via di una concezione derivata da tutt’altro sentimento. L’originalità era la garanzia intima dell’organico svolgimento della sua passione, del suo farsi poesia.

Come concepiva l’attuazione della tragedia? Ce lo dicono due famose pagine della Vita,che ci indicano come riuscisse essenziale al suo entusiasmo una stesura rapida di materia poetica, di situazione poetica ricca delle possibilità formali. E d’altronde il rigoroso lavorio della formazione che escludeva ogni arbitrio della fretta e della faciloneria. Certo però che egli stesso credeva nell’estro, nella bontà delle tragedie concepite, stese e versificate con piú rapidità: come avvenne del Saul. E ciò è chiaro quando si pensi che il primo motivo della poetica alfieriana è quello di far sentire in ogni punto, di portare sempre l’impeto della passione centrale senza distensioni ed oblii.

Da questo primo principio derivano tutte le particolarità della costruzione delle tragedie. La situazione scelta, oltre agli esempi classici, nelle proporzioni piú tese ed estreme, già vicino alla catastrofe senza possibilità di cambiamento psicologico né di colpi di scena. Addirittura una situazione già in termini di catastrofe senza ansia di soluzioni diverse nel carattere dell’eroe protagonista. La scelta di un urto cui l’eroe già anela fin dalla prima battuta, di un gesto che ogni parola cerca di adeguare con la sua intensità. Poiché l’Alfieri nel suo animo piú profondo è il vero protagonista delle tragedie (si pensi solo alla Cleopatra, in cui la figura di Antonio vuol essere l’espressione dell’autore in lotta contro un amore indegno e contro l’oppressione), tutto il peso della poesia si sposta su di un eroe che urta, si tormenta, supera o supera soccombendo di fronte agli altri attori, pretesti o riflessi della sua voce potente. Voce che parla di un’angoscia, di un desiderio di infinito che vuole realizzarsi passionalmente, né contemplando, né comprendendo, ma agendo. Voce che non ammette risposta, di un’infelicità nucleare e senza fine.

Cosí tutti gli altri personaggi sbiadiscono, decadono ad ombre teatrali che fremono di quando in quando degli echi di quella voce prima e superiore. E sono essi che escludono un vero teatro nella tragedia alfieriana nel senso che diamo alla parola quando pensiamo all’equilibrio anche delle tragedie shakespeariane piú dominate da una passione e da una personalità: Macbeth, King Lear, Hamlet. Sono allora quelle alfieriane mostruose liriche non riuscite? Ma noi torniamo ad affermare che la loro vocazione era tragica e che non potevano vivere se non in quello schema drammatico. Perciò non ci meravigliamo ed anzi ci rallegriamo di quel silenzio allibito che circonda gli eroi alfieriani, di quello sfondo nero, di quel giorno che tende sempre al buio della notte senza però ricercarne gli effetti, di quella solitudine che nasce da spazi e tempi infiniti. La corte, che è lo scenario di quasi tutte le tragedie alfieriane, non è solo in superficie quell’insieme di orrori che la passione politica aveva evocato, ma il fondo stesso di quella passione, il paesaggio di quell’anima amante degli eccessi. L’orrore e la grandiosità di quelle selve, di quei deserti, di quei ghiacciai che avevano fatto fremere il giovane romantico vibrano nell’aria in cui si elevano i gridi degli eroi. Cosí anche la poetica alfieriana esclude ogni seria ricostruzione storica: a che scopo complicare con relazioni particolari il minimo intreccio necessario alla storia eterna della ribellione e della liberazione eroica? Solo la sublimità di certi miti ingranditi dalla leggenda porta la sua suggestione ad accrescere l’orrore in cui vivono le tragedie alfieriane. Ma ci si intenda sulla parola “orrore”: non è quello che cercavano i romantici piú letterati, è puro da ogni ricerca di macabro e di sadismo, vive su di una linea pura di sentimenti magnanimi e classici. Orrore che non esclude ed anzi suggerisce il gesto eroico che è sempre un atto di vita, un atto morale. Da questa posizione di solitudine nasce la scelta di argomenti adatti e soprattutto di episodi della lotta contro i tiranni.

Si distinguono di solito le “tragedie di libertà” come quelle piú specificatamente politiche, ma meglio sarebbe sentire che tutte sono, nel loro profondo, tragedie di liberazione, anche se il risultato è di disfatta, di crollo, di delusione: liberazione della passione dai limiti che la vita le impone, dagli ostacoli che fermano il suo urgere verso l’assoluto. Certo l’odio contro i tiranni aveva anche un riferimento attuale, un contenuto di cronaca per quanto profondo; aveva avuto la funzione di inasprire la passione alfieriana e di indirizzarla ad un no reciso, motivato, tanto piú chiaro; ma trascinava con sé troppo di pratico, riferibile ad una lotta politica. Pure è esagerato dire che le cosiddette tragedie di libertà siano peggiori delle altre, perché anche tra queste altre non mancano quelle in cui la forza poetica decade a retorica, a veste letteraria. Si pensi alla Congiura de’ Pazzi da un lato ed alla Merope dall’altro. Bisogna solo dire che quanto piú la situazione si mostra pura da ogni possibilità pratica, semplice, personale tanto piú la poesia trova il suo vero accento. Anche nelle tragedie meno riuscite non mancano mai dei gridi alti in cui superando il tessuto mediocre la passione alfieriana si esprime e arricchisce la nostra eredità di poesia.

Ma dove la situazione è piú sobria, estrema, assoluta, la poesia riesce a reggersi nella vita che dal protagonista isola e condiziona la trama generale. Mentre delle altre tragedie vive in noi o il ricordo di una cupa atmosfera (il campo tragico su cui intravediamo Antigone e Argia alla ricerca del corpo di Polinice) o il sicuro acquisto di battute isolate in mezzo ad un contesto mostruoso o forsennato, in poche tragedie v’è un risultato piú completo, vivono personalità tragico-liriche organiche, perfette.

Come si deve leggere una tragedia alfieriana?

Se prendiamo il capolavoro, il Saul, e chiediamo dov’è la poesia, risponderemo che non è in tutta la tragedia. Se la maggiore perizia teatrale ci illude, la vera poesia è in Saul, e solo nelle sue parlate spiccano gli accenti altissimi della personalità alfieriana (in Saul l’Alfieri, che già si era espresso nei vari eroi delle altre tragedie, si riconosce piú espressamente, e tanto piú la tragedia si fa potente monologo). Esaminandola con una certa freddezza, vediamo subito che il primo Atto offre poco poeticamente: adempie ad una funzione teatrale presentando i tre personaggi che costituiscono l’antitesi di Saul, il mondo dei valori normali, nobili ma non eccezionali: fedeltà, amore, amicizia, amor di patria, legati in un’atmosfera media che non esclude l’idillio e la pacificazione. Un mondo protetto da Dio, come sudditi da un potente e paterno principe. Spuntano in sordina motivi che non appartengono a quei personaggi e al loro linguaggio:

Miseri noi! che siam, se Iddio ci lascia?[2]

Notte abborrita, eterna,

mai non sparisci?[3]

Ma insomma se v’è in loro un senso di costruzione, essi non interessano la poesia se non come un primo riflesso di Saul, un preludio di dignitosa compostezza da cui balzino con tanta piú potenza nel secondo Atto la figura e le parole di Saul.

Poiché quei personaggi non ci interessano teatralmente, ma come voce di un mondo su cui Saul si erge superiore.

Da una pausa (si tenga ben conto delle pause nella lettura alfieriana che calcola anche i silenzi e il sussurrio dei discorsi mediocri) nasce la figura di Saul, la voce di una pena titanica che sa già la sua condanna e tenta la lotta per puro bisogno di affermarsi e di liberarsi cosí dalla vera morte della capitolazione:

Bell’alba è questa. In sanguinoso ammanto

oggi non sorge il sole; un dí felice

prometter parmi. – Oh miei trascorsi tempi!

deh! dove sete or voi?[4]

Da questo abisso di timori e follie nasce a noi Saul: viene da piú lontano che dalle parole con cui ce lo avevano accennato le battute del primo Atto. Nasce dalla coscienza tormentata del poeta, dalla sua veemente e melanconica lotta contro una potenza di cui non è riuscito a rendersi conto se non negativamente e sentimentalmente.

Se l’amore per i figli arricchisce la sua desolata tragedia di una tenerezza tanto piú poetica, la complessità della sua poesia si regge però tutta sul sentimento primo di grandezza infelice che non lo abbandona mai, che è la sua malattia e la sua forza:

Precipitoso

già mi sarei fra gl’inimici ferri

scagliato io, da gran tempo: avrei già tronca

cosí la vita orribile, ch’io vivo.[5]

Il tema piú vero di questa poesia non è tanto il tema della irrequietezza:

Bramo in pace far guerra, in guerra pace: [...][6]

cosí autobiograficamente alfieriano, e che avviva la sua vita grandiosa, ma proprio il tema della grandezza infelice che cerca la morte per non soccombere alle cose, al Dio che confusamente sente come nemico: il tema titanico che si riprende in tutte le tragedie alfieriane e che qui trova la sua maggior chiarezza e la sua maggior complessità. Il linguaggio si purifica e si condensa, sa vivere in fosche pause di stanchezza, si atteggia in misure forti:

Io, da profonda cupa orribil valle,

lui su raggiante monte assiso miro: [...][7]

in audacie fantastiche che assecondano la vita dell’incubo di Saul:

[...] con l’altra mano

che lunga lunga ben cento gran cubiti

fino al mio capo estendesi, ei mi strappa

la corona dal crine; [...][8]

Dalla trama dialogata degli incontri di Saul con gli altri, il nostro orecchio sente sempre alzarsi come una voce diversa, la voce di Saul:

Gionata: Col re sia pace.

Micol: E sia col padre Iddio.

Saul: ... Meco è sempre il dolore.[9]

Gionata: Deh! vieni, amato padre; a’ tuoi pensieri

da’ tregua un poco: or l’aura aperta e pura

ti fa ristoro; vieni: alquanto siedi

tra i figli tuoi.

Saul: ... Che mi si dice?

Micol: Ah! padre!...

Saul: Chi sete voi?... Chi d’aura aperta e pura

qui favellò?... Questa? È caligin densa;

tenebre sono; ombra di morte... Oh! mira;

piú mi t’accosta; il vedi? Il sol d’intorno

cinto ha di sangue ghirlanda funesta...

Odi tu canto di sinistri augelli?

Lugúbre un pianto sull’aere si spande,

che me percuòte, e a lagrimar mi sforza...[10]

E certo ha piú valore poetico la breve domanda da lui rivolta a Gionata tra sospettoso e imperioso:

... Gionata, m’ami?...

di tutta la cantata di David, ingenua ed inefficace (prova sicura dell’impossibilità per l’Alfieri di reggersi su di un’espressione puramente letteraria); o i lampi di sfrenato impeto, nella parlata contro Achimelech, che tutta la parlata d’uomo giusto che questi gli oppone. E piú che nel variare dei suoi affetti al contatto degli altri, contano poeticamente i rari momenti di solitudine in cui ritrova il suo dramma e la sua catastrofe:

Sol, con me stesso, io sto. – Di me soltanto

(misero re!), di me solo io non tremo.[11]

Anche nel breve Atto finale, dopo il colloquio di David e di Micol lumeggiato da un parco accenno di paesaggio preromantico:

La luna cade, e gli ultimi suoi raggi

un negro nuvol cela.[12]

i momenti di solitudine ci risvegliano alla sublimità di quella poesia dolorosa e fremente, quando entra Saul inseguito dalla sua visione di sangue, e nutrono la sua risoluzione matura, la sua ricerca della liberazione nella morte:

Là corro: ivi si alberga

Morte, ch’io cerco.[13]

Ogni incertezza di carattere psicologico cade di fronte alla serietà estrema con cui si realizza nella morte:

Io da gran tempo in cor già tutto ho fermo:

e giunta è l’ora.[14]

Ed isolata da un vago accento di perplessa e tenera pietà dal mondo degli altri:

Micol: Padre!... E per sempre?...[15]

fiorisce l’ultima lirica dell’io alfieriano che, consapevole come mai prima della sua lotta contro l’ira terribile e superiore, porta tutta la sua forza spirituale nelle parole di sfida magnanima:

Eccoti solo, o re; non un ti resta

dei tanti amici, o servi tuoi. – Sei paga,

d’inesorabil Dio terribil ira? –

Ma, tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo,

fido ministro, or vieni. – Ecco già gli urli

dell’insolente vincitor: sul ciglio

già lor fiaccole ardenti balenarmi

veggo, e le spade a mille... Empia Filiste,

me troverai, ma almen da re, qui... Morto. –[16]

La Mirra invece rappresenta il massimo sforzo del poeta ad avviare la sua passione ad uno sfogo poco clamoroso, ad uno svolgimento non esplosivo, piú sotterraneo per quanto mai psicologico nel senso realistico della parola. La situazione è blanda, illuminata da una luce quotidiana, animata da affetti schietti, ma senza estremismo: ciò porta tanto piú la solitudine entro la protagonista quasi per un abbandono volontario dei procedimenti fino allora adottati. Dentro la protagonista vive tutta l’intensità in un discorso che essa svolge con la sua passione, con il suo tiranno dall’inizio della tragedia alla catastrofe che acquista perciò un carattere tanto piú intimo e terribile, ma non pauroso. Il suicidio è sempre l’atto di liberazione, ma non suona sfida quanto conclusione cui l’anima giunge appassionata e disperata. Certo la Mirra è la tragedia piú nuova dell’Alfieri, quella che fa intravedere una maturità non piú espressa. L’impeto giovanile dell’io aveva trovato in quella tragedia una forza di disciplina intima mai piú raggiunta. Ma anche qui quello che noi amiamo è sempre la posizione forte dell’anima che si fa poesia battendo con la sua risolutezza, facendo massa in ogni punto in cui possa elevarsi in grido, in lotta. È al solito poesia che cerca note alte, piú intense che armonizzate.

Poesia intensa, come nel magnifico verso

Io disperatamente amo, ed indarno.[17]

e perfino nelle staccate parole finali che mancano di qualsiasi abbandono, di qualsiasi languore.

L’unica tragedia in cui l’Alfieri procede su di una trama di memoria, su di uno sviluppo è la Vita, che ha un grande valore artistico nelle prime tre parti e decade, tranne l’episodio della fuga da Parigi, a cronaca e rendiconto di studioso nella quarta parte. Nella Vita fino alla conversione alla poesia l’Alfieri vede la preparazione di quella nella storia di un animo generoso e appassionato che cerca una ragione essenziale di affermarsi. Lí non si grida attraverso la voce dei suoi eroi, ma con una sensibilità piú moderna e romanzesca si vede su episodi e spunti sempre piú significativi e incalzanti. Da questo diverso atteggiamento dello scrittore (benché non vi sia in lui una ricerca del tempo perduto per una nostalgia poetica del passato come senz’altro poetico) deriva la maggior fusione della Vita, il linguaggio piú riposato e arricchito da una raffinatezza di romanzo settecentesco, quel che di piú colorito, di meno squallido e teso.

Da un lato una maggiore lucentezza dovuta alla vivacità del ricordo, dall’altro la volontà di dare coscienza a ciò che per sua natura non ne aveva, danno alle prime tre Epoche della Vita una complessità e un equilibrio che non sono delle tragedie. Invece la vera letteratura dell’Alfieri è il petrarchismo, che è per lui non solo l’esempio di un platonismo amoroso e di un clima solitario ma proprio una scuola di precisione lessicale, di sintassi poetica. Ma la suggestione petrarchesca serve alla poesia solo in quanto conferma la validità di una posizione romantica di lamento, di pensosità dolorosa. L’Alfieri delle Rime è lo stesso delle tragedie, forte della forza della passione sdegnosa e solitaria.

Solo che la tradizione petrarchistica toglie l’urgenza dell’azione, lo aiuta a vivere piú letterariamente, a velare i suoi impeti con una patina di narrazione di tipo petrarchesco, di reminiscenze, di casualità, di spunti della vita ad una avventura amorosa che vuol essere lo scopo della poesia. Ma anche qui raramente il sentimento alfieriano si costruisce davvero sullo schema del sonetto e supera il primo momento intenso per dar vita a tutto il componimento. Sono cosí gli inizi poetici che ci parlano il linguaggio intimo dei personaggi romantici alfieriani e che si arrestano all’orlo di uno svolgimento concettuale:

Fra queste antiche oscure selve mute, [...][18]

Per queste orride selve atre d’abeti, [...][19]

Raramente la forza poetica giunge a misurarsi e mantenersi per tutto il componimento, come avviene (e l’ultima terzina è in forse) nel sonetto piú romantico dell’Alfieri:

Là dove muta solitaria dura

piacque al gran Bruno instituir la vita,

a passo lento, per irta salita,

mesto vo; la mestizia è in me natura.

Ma vi si aggiunge un’amorosa cura,

che mi tien l’alma in pianto seppellita,

sí che non trovo io mai spiaggia romita

quanto il vorrebbe la mia mente oscura.

Pur questi orridi massi, e queste nere

selve, e i lor cupi abissi, e le sonanti

acque or mi fan con piú sapor dolere.

Non d’intender tai gioje ogni uom si vanti:

le mie angosce sol creder potran vere

gli ardenti vati, e gl’infelici amanti?[20]

E piú raramente la durezza di quei versi si sfà in una dolcezza fantastica sostenuta fino in fondo:

Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva

al mar là dove il Tosco fiume ha foce,

con Fido il mio destrier pian pian men giva;

e muggían l’onde irate in suon feroce.

Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva

il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)

d’alta malinconia; ma grata, e priva

di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.

Dolce oblio di mie pene e di me stesso

nella pacata fantasia piovea;

e senza affanno sospirava io spesso:

quella, ch’io sempre bramo, anco parea

cavalcando venirne a me dappresso...

Nullo error mai felice al par mi fea.[21]

Piú facilmente attraverso il petrarchismo amoroso echeggiano i gridi noti a noi dalle tragedie:

Due fere donne, anzi due furie atroci,

tor non mi posso (ahi misero!) dal fianco.

Ira è l’una, e i sanguigni suoi feroci

serpi mi avventa ognora al lato manco;

Malinconia dall’altro, hammi con voci

tetre offuscato l’intelletto e stanco:

ond’io null’altro che le Stigie foci

bramo, ed in morte sola il cor rinfranco.[22]

Bieca, o Morte, minacci? e in atto orrenda,

l’adunca falce a me brandisci innante?

Vibrala, su: me non vedrai tremante

pregarti mai, che il gran colpo sospenda.

Nascer, sí, nascer chiamo aspra vicenda,

non già il morire, ond’io d’angosce tante

scevro rimango; e un solo breve istante

de’ miei servi natali il fallo ammenda.[23]

O addirittura sembravano la chiave dei suoi versi tragici, solitari, dominati da un’alta mania di libertà e di liberazione:

Tacito orror di solitaria selva

di sí dolce tristezza il cor mi bea,

che in essa al par di me non si ricrea

tra’ figli suoi nessuna orrida belva.

E quanto addentro piú il mio piè s’inselva,

tanto piú calma e gioia in me si crea;

onde membrando com’io là godea,

spesso mia mente poscia si rinselva.

Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso

mende non vegga, e piú che in altri assai;

né ch’io mi creda al buon sentier piú appresso:

ma, non mi piacque il vil mio secol mai:

e dal pesante regal giogo oppresso,

sol nei deserti tacciono i miei guai.[24]

La sua parola è cosí per noi confermata in ogni sua manifestazione e nella sua poesia non didascalicamente, ma per la presenza della sua personalità: una parola di fierezza non stoica, ma appassionata, a tutto ciò che può renderci bassi, non umani, non «veri uomini», e di cui è quasi un simbolo la figura dell’uomo libero che afferma e nega secondo la pura voce della sua coscienza; non di un astratto dovere cioè, ma della passione fondamentale degna dell’uomo:

Uom, di sensi, e di cor, libero nato,

fa di sé tosto indubitabil mostra.[25]


1 Vita cit., I, p. 127.

2 Saul, Atto I, sc. 1, v. 20, ed. cit., p. 51.

3 Sc. 3, vv. 190-191; ivi, p. 59.

4 At. II, sc. 1, vv. 1-4; ivi, p. 65.

5 Vv. 31-34; ivi, p. 66.

6 V. 41; ibid.

7 Vv. 101-102; ivi, p. 68.

8 Vv. 105-108; ibid.

9 Sc. 2, vv. 122-123; ivi, p. 69.

10 At. III, sc. 4, vv. 140-151; ivi, pp. 87-88.

11 At. IV, sc. 7; ivi, p. 115.

12 At. V, sc. l, vv. 6-7; ivi, p. 117.

13 Sc. 3, vv. 181-182; ivi, p. 125.

14 Sc. 4, vv. 199-200; ivi, p. 127.

15 V. 216; ivi, p. 128.

16 Sc. 5, vv. 217-225; ibid.

17 Mirra, ed. M. Capucci, Asti, Casa d’Alfieri, 1974, At. V, sc. 2, v. 139, p. 94.

18 Son. 150, v. 1; Rime cit., p. 127.

19 Son. 261, v. 1; ivi, p. 216.

20 Son. 89; ivi, pp. 79-80.

21 Son. 135; ivi, p. 116.

22 Son. 169, vv. 1-8; ivi, p. 143.

23 Son. 18, vv. 1-8; ivi, p. 16.

24 Son. 173; ivi, p. 146.

25 Son. 288, vv. 1-2; ivi, p. 234.